L’emigrazione dal Bellunese
          
          La 
          provincia di Belluno è tradizionalmente nota per la sua caratteristica 
          di paese di emigranti.
          "Ogni 
          famiglia, dalla più povera alla più ricca, ha avuto emigranti […]. 
          Emigrazione significa storia dei nostri padri. E queste "radici" sono 
          degne di essere conosciute, non fosse altro perché, quasi sempre, 
          emigrare ha significato – in passato – alleviare la fame di chi 
          partiva e di chi restava. In molti casi ha significato il trampolino 
          di lancio per un’esistenza più dignitosa e di maggior benessere 
          economico per figli e nipoti, fino ai giorni nostri". (1)
          Fin da 
          bambini, abbiamo sentito parlare dei nostri nonni e bisnonni che, con 
          la loro valigia di cartone, se ne partivano diretti verso città 
          lontane, il più delle volte in paesi stranieri, alla ricerca di fonti 
          di guadagno che non riuscivano a trovare nel luogo natio. Gli uomini 
          si dedicavano ai mestieri più disparati: oltre a quelli, comunemente 
          noti, legati alla cantieristica, sono degni di menzione, i gelatieri, 
          grazie ai quali Belluno è conosciuta, anche oggi, in molti paesi 
          esteri; i cosiddetti "Scòti", zoldani che, verso la metà 
          dell’Ottocento, andavano a Milano durante la stagione invernale a 
          vendere castagne cotte e pere; gli "squarador", che si recavano, 
          prevalentemente in Romania a sagomare le piante dei boschi, e i 
          seggiolai ambulanti, o "caregheta", certamente i più conosciuti, 
          provenienti soprattutto dall’Agordino. (2) Quest’ultima attività 
          risale certamente alla fine del ’700 e si sviluppò dapprima nei paesi 
          di Gosaldo e Tiser, per estendersi poi ad altri luoghi dell’Agordino, 
          in particolare a Rivamonte, dove, a causa dei fumi sulfurei che si 
          sprigionavano dai forni delle miniere, i terreni diventavano sterili e 
          l’agricoltura insufficiente al mantenimento delle famiglie; questo 
          mestiere costituiva una valida alternativa al duro lavoro in miniera, 
          anche se comportava il sacrificio di una vita itinerante, lontano da 
          casa e dalla famiglia.
          I seggiolai 
          partivano tra la fine di agosto e l’inizio di ottobre, quando i lavori 
          nei prati e nei campi erano quasi terminati e la legna per l’inverno 
          era stata preparata; non tornavano che verso Maggio-Giugno dell’anno 
          seguente, dopo aver girato intere province ed aver condotto una vita 
          di stenti, cercando di risparmiare il più possibile, per la famiglia 
          lontana.
          A volte, 
          questa emigrazione, da stagionale poteva trasformarsi in definitiva, 
          in quanto i continui contatti con zone e culture diverse da quella del 
          paese d’origine poteva cambiare la mentalità e il modo di essere degli 
          itineranti, al punto da non farli sentire più a loro agio nei luoghi 
          nativi. (3)
          Una delle 
          mete più consuete dei "caregheta" era sicuramente Venezia, dove già 
          nel 1594 è attestata, nella parrocchia di S. Salvador, la presenza, 
          tra gli immigrati, di Bortolomio, "conza carieghe" da Agordo (4); 
          inoltre, Gaetano Zompini, nella sua opera Le arti che vanno per via 
          nella città di Venezia, ci dà una realistica rappresentazione di 
          un seggiolaio ambulante, proveniente dal Cadore, che si recava nella 
          Dominante per esercitare il suo mestiere. (5)
          Un’efficace 
          descrizione della vita di questi lavoratori itineranti ce la fornisce 
          Giovanni Grevenbroch:
          "Noi 
          intendiamo di estendere il fervore industrioso del povero popolo, che 
          circonda la Terra di Agort nel Territorio Bellunese (non Friulese), 
          stante che alcuni di quei Villici, massime nell’Inverno, obbligati 
          dalla fame, abbandonano il proprio Nido, per ricoverarsi in sì felice 
          Metropoli, dove mediante meccanico lavoro, secondo il loro basso 
          intelletto, provvedono all’indigenza estrema e al mantenimento 
          quotidiano […]. Tali sono gli Conza Careghe, Gente senz’Arte e senza 
          altra attività, che di costruire Sedie d’ogni sorte, di legno di Salce, 
          e trecce di paglia, tradotta da dolci Paludi. Costoro non eccedono il 
          numero di cento, ne più di otto mesi a vicenda a Venezia dimorano, 
          nelle Contrade di S. Luca, di S. Barnaba, e S. Maria Nova, vivendo con 
          parsimonia, onde conservare il Denaro, in maniera che non si 
          alimentano di altro, che di Polenta, cibo invero per necessità gradito 
          ne’ nativi alpestri paesi". (6)
          Notevole fu 
          anche l’emigrazione di donne e bambini: le prime tra l’800 e il ’900, 
          spesso si trasferivano in città come Milano, Bologna, Torino e Venezia 
          a fare le "balie" o le domestiche (7), oppure andavano a fare le "Ciode" 
          nel più vicino Trentino.
          "Ciòde" e "Ciodéti" 
          erano i termini coi quali si indicavano le donne e i ragazzini che si 
          recavano, ogni primavera, in Trentino per svolgere lavori agricoli e 
          non tornavano a casa che ad autunno inoltrato. (8)
          
          L’emigrazione fu, dunque, un fenomeno di notevole rilevanza e che 
          condizionò in maniera radicale la vita della città e del territorio, 
          tanto che, nel 1966, si sentì l’esigenza di fondare un’associazione 
          che fungesse da centro d’aggregazione e comunicazione tra i bellunesi 
          sparsi nel mondo, che fornisse loro un valido aiuto nella difesa dei 
          propri diritti e ne tutelasse la loro identità di emigranti; quella 
          che oggi è conosciuta col nome di "Bellunesi nel mondo". (9)
          Molti sono 
          gli scritti che hanno analizzato il fenomeno migratorio nel Veneto e 
          nel Bellunese, in particolare, ma questi interessano principalmente il 
          periodo che va dal XIX secolo ai giorni nostri (10); eppure questo 
          movimento di soggetti alla ricerca di un’occupazione era già 
          consistente nei secoli precedenti, ma, forse per il suo carattere 
          prevalentemente stagionale, era di difficile individuazione e quindi è 
          stato poco studiato.
           
          
          
          Emigrazione 
          verso Venezia
          
          
          Interessanti notizie, per quanto riguarda l’emigrazione bellunese nel 
          Settecento, si possono ricavare dagli studi di Giovanni Caniato e 
          Guglielmo Zanetti sull’arte degli squeraroli di Venezia (11), 
          in quanto, dalle loro opere, emerge che una consistente percentuale di 
          garzoni addetti a tale mestiere proveniva da varie località del 
          Bellunese e da Zoldo in particolare.
          Dati 
          analoghi si ritrovano nell’opera L’arte dei calegheri e zavateri di 
          Venezia tra il XVII e il XVIII secolo, nella quale si afferma che, 
          analizzando la provenienza dei garzoni di questa corporazione nei 
          quinquenni 1698-1702 e 1736-1740, la percentuale di quelli giunti da 
          zone montane come Cadore, Agordino e Bellunese "sale al 43% nel caso 
          dei garzoni assunti nel primo quinquennio e al 51% per quelli del 
          secondo". (12)
          
          Un’ulteriore conferma dell’abituale spostamento degli uomini della 
          vallata bellunese verso Venezia, per motivi di lavoro ci è fornita dal 
          saggio di Morena Lucchetta che, analizzando la situazione famigliare 
          della comunità di Canale d’Agordo tra il Settecento e l’inizio 
          dell’Ottocento, sottolinea come una buona percentuale di capifamiglia 
          eserciti professioni inconsuete per questi luoghi montani, come "felzai 
          da barche", "facchini d’Arsenale", "lavoranti di seta" e "sbiaccari".
          Unica 
          spiegazione possibile è il fatto che queste persone, pur mantenendo 
          casa, famiglia e residenza nel Bellunese, esercitino la loro 
          professione e dimorino a Venezia, tornando nella loro vallata solo nei 
          mesi estivi per la fienagione e il lavoro nei campi.
          "Questa 
          comunità quindi, chiusa dal punto di vista geografico ed ambientale, è 
          però aperta al mondo economico e sociale dello Stato di cui fa parte.
          
          L’emigrazione vista da sempre come qualcosa di negativo può, in questo 
          contesto, essere l’unico mezzo di sussistenza per le famiglie di 
          questa valle. Ecco che, accanto alle attività legate ad una tradizione 
          montana, il valligiano tende ad aprirsi e a imparare nuovi mestieri.
          Tende cioè 
          a migliorare le sue precarie condizioni di vita, mettendo a 
          disposizione di altre comunità il suo lavoro, che diventerà l’unica 
          risorsa di sussistenza della popolazione della valle, segnata dalle 
          profonde crisi della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento". 
          (13)
           
          
          
          
          Precisazioni metodologiche
          
          La mia 
          ricerca prende spunto dall’indagine che Antonio Lazzarini ha condotto 
          sui registri dei garzoni, contenuti nel fondo Giustizia Vecchia, 
          conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia. (14) Lo studioso ha 
          preso in considerazione la documentazione relativa al periodo 
          1731-1750 ed ha sviluppato un’interessante analisi sulla presenza dei 
          bellunesi a Venezia, basandosi, appunto, sui contratti stipulati tra 
          datori di lavoro e garzoni, fonte privilegiata in quanto è quasi 
          sempre riportato il luogo di provenienza degli assunti, almeno fino al 
          1760, quando questa preziosa informazione tende a diventare sempre più 
          rara.
          Da parte 
          mia, ho cercato di approfondire questo argomento esaminando gli 
          incartamenti che coprono l’arco temporale che va dal Gennaio 1703 al 
          Maggio 1772 (secondo il calendario veneto che faceva iniziare l’anno 
          il primo Marzo per concludersi a fine Febbraio), contenuti nelle buste 
          124, 125, 126 del fondo Giustizia Vecchia, e che riportano i 
          contratti di garzonato relativi a buona parte delle arti, 
          integrandoli, in alcuni casi, con altri documenti più esaustivi.
          Non sempre, 
          però, sono riuscita a rintracciare sufficienti dati che possano 
          coprire, in maniera esauriente, l’intero periodo sopra citato, in 
          quanto spesso, i contratti sono riportati in altre fonti che, in molti 
          casi, non sono riuscita a reperire, o non sono per niente annotati.
          Ho riunito 
          i contratti di lavoro in tabelle, a seconda della professione, ed ho 
          così individuato diciotto arti in cui la presenza di garzoni, 
          provenienti dal Bellunese, è particolarmente rilevante, vale a dire:
          bombaseri, botteri, calegheri e zavateri, cappelleri, casselleri, 
          fabbri, forneri, fustagneri, intagliadori, linarioli, luganegheri, 
          marangoni, scaleteri, squeraroli, stramazzeri, tentori, tesseri e 
          tornitori.
          
          Infine ho 
          confrontato i cognomi dei garzoni con quelli dei capi maestri delle 
          singole arti (quando sono riuscita a trovarli), per rintracciare 
          eventuali corrispondenze, parentele o altro; pochissime fonti 
          riportavano, accanto al nome del capo maestro, la provenienza, per cui 
          ho attribuito origine bellunese a quelle persone che esibivano cognomi 
          ancor oggi diffusi nella nostra provincia, o presenti nelle liste di 
          quei garzoni il cui luogo di nascita era attestato nel documento.
          Ogni 
          contratto riporta, con lievi variazioni, la medesima formula, ad 
          esempio:
          "24 
          Novembre 1732
          Zuanne de 
          Zuanne Dal Frano di S. Vido di Cadore di anni 13 in circa, s’accorda 
          per garzon con Antonio Pellegrini stramazzer per anni cinque 
          principiati il […] e falando alcun giorno sia tenuto riffar quel paron 
          si offerisse insegnarli l’arte sua, lo tien in casa mondo e netto li 
          fa le spese e di salario li dà ducati cinque all’anno. Piezo Zuanne 
          Pompanin zavater in Calle Longa in forma". (15)
          Come si può 
          notare, questa formula ci fornisce molte notizie utili non solo per 
          quanto riguarda la generalità e la provenienza del garzone, ma anche 
          sugli obblighi reciproci tra il datore di lavoro e l’apprendista, 
          consentendoci di conoscere più a fondo le consuetudini lavorative di 
          quel tempo.
          La prima 
          indicazione interessante è sicuramente la precisazione dell’esistenza 
          in vita o meno del padre del garzone, in questo caso espressa dal 
          de davanti al nome, sostituito dal quondam quando il 
          genitore risulti deceduto.
          A volte mi 
          è capitato di trovarmi di fronte alla difficoltà di capire se quel 
          de significasse "figlio di" oppure fosse il prefisso di un cognome 
          composto con un nome proprio (ad esempio De Mattio), vista la mancanza 
          di un’ortografia corretta; dal mio studio mi è sembrato di capire che, 
          in questi registri, sia riportata per prima la paternità e poi il 
          cognome del garzone, per cui, in casi dubbi, ho usato questo criterio.
          Anche 
          comprendere i cognomi ha comportato un notevole sforzo, sia per la 
          ricorrente indecifrabilità della grafia sia per il fatto che, spesso, 
          sono scritti in dialetto, magari con l’aggiunta di doppie o apostrofi 
          inesistenti e perciò ho dovuto far ricorso, in molti casi, al 
          confronto con quelli diffusi ancor oggi per scioglierli; altre volte 
          insorgeva anche la difficoltà di capire se diciture come cadorin 
          o ampezzan fossero cognomi o denominazioni di origine.
          I luoghi di 
          provenienza dei garzoni vengono, in genere, indicati nelle fonti in 
          base alla divisione amministrativa del territorio della Repubblica, a 
          volte con la specificazione del paese, più spesso con l’indicazione 
          della zona geografica corrispondente; per esigenze espositive io li ho 
          così raggruppati:
          - Agordo: 
          comprende anche i paesi di Caprile, Alleghe, S. Tommaso e Cencenighe;
          - Cadore: 
          anche quando sono specificati, i paesi non sono stati trascritti;
          - Canale 
          d’Agordo: viene considerato a se stante anche se fa parte del 
          Capitaniato di Agordo dal punto di vista amministrativo;
          - 
          Cividal de Belun: indica la città ed anche il Territorio Basso;
          - Zoldo: 
          anche quando sono specificati, i paesi non sono stati trascitti.
          Pochi i 
          contratti stipulati con ragazzi provenienti dall’Alpago ed ancor meno 
          con i feltrini, probabilmente diretti verso altre località.
          Molto 
          numerosi appaiono, invece, i garzoni provenienti da zone inserite da 
          secoli nei confini dell’Impero asburgico, ma che, nel Settecento, 
          sembrano ancora gravitare nell’orbita veneziana per quanto riguarda il 
          settore lavorativo: Livinallongo (Livinal longo o Vinal 
          Longo), Colle S. Lucia ed Ampezzo.
          L’età di 
          assunzione dei garzoni variava da un minino di dieci anni fino ai 
          diciotto (venti in qualche caso), con una percentuale maggiore della 
          fascia d’età compresa tra i tredici e i quindici anni, anche se il 
          fatto che molti ragazzi sono descritti come "d’età maggior" e 
          l’aggiunta del "circa" accanto agli anni non consentono di calcolare 
          con certezza l’età media.
          La durata 
          del periodo di garzonato era, in genere, di cinque anni che potevano 
          anche diventare sei o sette per certe professioni (come ad esempio gli
          intagliadori), oppure ridursi a due o tre, forse nel caso di 
          una particolare abilità dell’apprendista o se questi aveva 
          precedentemente esercitato il medesimo lavoro presso un altro padrone, 
          o più probabilmente, se era un figlio di un capo maestro. Il garzone 
          aveva l’obbligo di recuperare ogni giorno di assenza dal lavoro, 
          mentre il padrone era tenuto ad insegnargli il mestiere, ad ospitarlo 
          nella sua casa, o comunque a fornirgli un alloggio, vitto e vestiario 
          anche in caso di malattia; insomma avrebbe dovuto occuparsi di lui 
          come un "buon padre di famiglia".
           
          
          
          I compensi
          
          Il salario, 
          quando esisteva, era molto basso ed era pagato, di solito, 
          annualmente; nei documenti ricorre spessissimo la somma di cinque 
          ducati all’anno.
          A volte i 
          contratti riportano un compenso totale ("in tutto") che, 
          probabilmente, veniva versato al termine dell’apprendistato; forse era 
          un deterrente contro un’eventuale fuga da parte del garzone (visto che 
          non erano poi così rare) o poteva servire per coprire eventuali danni 
          causati da questo; ma sono solo mie ipotesi.
          Un’altra 
          modalità di pagamento era quella elargita settimanalmente, con un 
          aumento piuttosto costante di circa una lira alla settimana ogni anno, 
          come per l’aspirante tentor da guado Battista fu Antonio Mina, 
          assunto come garzone il 25 Settembre 1727, con la promessa di un 
          compenso di sei lire alla settimana per il primo anno, sette per il 
          secondo, otto per il terzo e nove per il quarto ed ultimo anno. Oppure 
          veniva stabilito un compenso giornaliero, come per il garzone 
          Pellegrin di Bastian Cech di Canale d’Agordo, preso alle sue 
          dipendenze dallo stampador Stefano Tramontin il primo Marzo 
          1731, per "30 soldi al giorno per i giorni di lavoro". (16)
          Ho notato 
          che, nei documenti da me consultati, queste inconsuete modalità di 
          pagamento sono presenti soprattutto nelle arti dei tentor e 
          degli stampador.
          
          Chi non 
          veniva retribuito in denaro poteva ricevere come corresponsione "una 
          traversa", oppure "falda, scarpe e bereta", o "falda, scarpe e calze", 
          il più delle volte solamente una di queste tre cose, in genere le 
          scarpe; i padroni più generosi li fornivano al garzone "al bisogno", 
          gli altri "una volta tanto".
          Tra i più 
          "fortunati" voglio citare il diciottenne Zuanne De Sabbe, assunto il 
          primo Settembre 1708 dai forneri Zorzi Gasparin e Zuanne De 
          Sabbe che riceve, come compenso, cinque ducati all’anno ed anche una
          traversa (17); purtroppo non sono riuscita a sciogliere il nome 
          del padre, ma l’evidente omonimia col datore di lavoro indica una più 
          che probabile parentela ed è forse dovuta a questo il miglior 
          trattamento economico.
          Anche Gio.Battista 
          Adami di Cividal de Belun può benissimo essere considerato un 
          privilegiato, visto che il salario pattuito col capo maestro Nicolò 
          D’Adamo il 18 Luglio 1708 (data di assunzione) prevedeva "sette ducati 
          all’anno e mantenerlo di scarpe" (18); anche in questo caso si può 
          avanzare l’ipotesi di una qualche parentela, visto la somiglianza dei 
          due cognomi e dato che, in questi incartamenti, sono frequenti 
          l’alterazione dei termini ed errori di trascrizione
          Un’altra 
          ipotesi potrebbe essere che entrambe le famiglie degli stipulanti il 
          contratto provengano dallo stesso paese di montagna (vista la 
          somiglianza dei cognomi) e quindi l’esistenza di rapporti d’amicizia 
          spiegherebbe questo miglior trattamento economico; tuttavia le mie 
          restano supposizioni difficili da avvalorare.
          Molte volte 
          capitava che fosse il padre del garzone, o il garzone stesso, a dover 
          corrispondere al padrone una somma in denaro o in beni di consumo sia 
          per contribuire al mantenimento del ragazzo durante il periodo di 
          apprendistato, sia perché gli fosse insegnato il mestiere.
          Un esempio 
          è il contratto di garzonato stipulato tra Lorenzo di Gio.Battista 
          Vingontina dall’Ampezzo e Bernardo Zuliani fabricator da calze, 
          il 23 Dicembre 1717, che stabiliva che il padre dell’assunto dovesse 
          dare al padrone "un vitello salato ogni anno" (19); Mattio Diedi, 
          tornitor d’avolio, chiede al garzone Giacomo di Simon De Gaspari, 
          suo dipendente dal 18 Agosto 1728, la somma di "20 ducati in tutto" 
          (20), mentre Nicola Picinali, marangon da fabriche, pretende 
          dal garzon Zanmaria De Biasio "28 soldi al giorno per il suo alimento" 
          (9 Gennaio 1712). (21)
           
          
          
          I garanti
          
          Quasi tutti 
          i contratti di garzonato terminano con il pieggio, vale a dire 
          il mallevadore, una persona che faceva da garante e che, 
          probabilmente, doveva essere presente durante la stipula del contratto 
          e fornire delle garanzie sulla serietà del nuovo assunto.
          In 
          moltissimi dei casi esaminati, il garante è il padre del garzone, 
          altre volte può essere il fratello oppure lo zio; spesso queste 
          parentele vengono specificate dalle fonti, ma, quando ciò non accade, 
          sono facilmente deducibili dal nome del padre (nel caso di fratelli) o 
          dalla corrispondenza dei cognomi, per altri legami di sangue. Vedi, a 
          conferma di tale affermazione, il 30 Agosto 1725 Bastian di Lorenzo 
          Sabbe, apprendista squerarol, appoggiato dal fratello Iseppo,
          forner (22), ed il primo Agosto 1737 il garzone Zuanne Valt di 
          Apollonio, appoggiato da Silvestro Valt. (23)
          Resta 
          incerto se i garanti dimorassero e lavorassero a Venezia; potrebbe 
          essere un’ipotesi plausibile, in quanto le generalità del mallevadore 
          (che poteva essere più di uno) sono specificate nei dettagli e 
          riportano anche la professione e, a volte, il luogo di lavoro: questo, 
          secondo me, potrebbe indicare che chi si assumeva un tale incarico 
          doveva essere facilmente identificabile e rintracciabile.
          Ne cito uno 
          come esempio: Zuanne Scarzanella, forner a S. Lio, è il 
          fideiussore di Antonio di Simon Bonifacio, assunto il 12 Luglio 1730 
          dal forner Andrea Colussi. (24)
          Un 
          contratto, tra quelli esaminati, che potrebbe dare qualche indicazione 
          sulla provenienza del garante, è quello del 13 Ottobre 1742 tra Mattio 
          di Bernardo Renon da Agordo e il tesser da tela Francesco 
          Pasquin, che riporta come pieggio Francesco di Giovanni Renon 
          da Agordo (25); ma, anche in questo caso, con le informazioni a mia 
          disposizione, non mi è possibile stabilire con certezza se l’agordino 
          fosse ancora residente al paese natale o si fosse trasferito nella 
          città lagunare, magari per lavoro.
          In un buon 
          numero di accordi il nome del garante è preceduto dal titolo di 
          domino, vale a dire capo maestro; ciò significa che, spesso, era 
          una persona con una carriera consolidata, e quindi di una certa 
          rispettabilità, quella che si assumeva l’onere di garantire per un 
          garzone.
          Capita 
          sovente che la stessa persona faccia da mallevadore a più garzoni, 
          come domino Battista Scola, stampador in rame, che il 
          primo Dicembre 1733 garantisce per Tommaso Deola, aspirante 
          occhialer e per Gio.Battista Ganz, aspirante casseler, 
          entrambi di Canale d’Agordo; il 30 dello stesso mese lo fa per Piero 
          Dalla Sega, anch’egli di quello stesso paese, ed anche in data 3 
          Aprile del 1734 troviamo Battista Scola, sempre nelle vesti di 
          garante, per Lucian fu Antonio Cech, naturalmente di Canale d’Agordo 
          (26); inutile citare tutti i contratti in cui lo Scola è presente 
          (sono davvero molti), basti ricordare che tutti i garzoni provengono 
          dallo stesso paese.
          Questi dati 
          mi permettono di avanzare, senza troppi azzardi, la supposizione che 
          anche il capo maestro Scola fosse originario di Canale d’Agordo (del 
          resto questo è un cognome ancora molto diffuso da quelle parti) e che 
          avesse dei rapporti di amicizia, o comunque di conoscenza, con questi 
          garzoni o con le loro famiglie e, quindi, cercasse di aiutarli 
          nell’ardua impresa di trovare lavoro in un paese sconosciuto.
          Difatti, in 
          parecchi contratti, ho notato che i cognomi dei garanti, e tante volte 
          anche dei datori di lavoro, sono tipici, o comunque molto diffusi, 
          nella provincia di Belluno e questo non può che significare la loro 
          comune origine montana: il 02 Gennaio 1707 Nicolò fu Liberal Panciera 
          si accorda col tentor Nicolò Panciera, il pieggio è 
          Carlo Panciera (27); in questo caso sono, molto probabilmente, anche 
          parenti.
          Ad 
          avvalorare quanto appena affermato contribuiscono le precisazioni, 
          contenute in taluni accordi, che specificano la parentela tra garzone 
          e datore di lavoro oppure la provenienza dallo stesso paese (o 
          comunque dal territorio bellunese): ad esempio il casseler 
          Zuanne Serafin prende a lavorare nella sua bottega il fratello Antonio 
          il 18 Novembre 1712, (28) mentre presso lo zavater Domenico 
          Gaspari da Livinallongo troviamo impiegato come garzone, dal 20 
          Novembre 1713, Marco Da Rozze da Agordo. (29)
           
          
          
          Vita dura
          
          La vita di 
          questi garzoni deve essere stata tutt’altro che facile: duro lavoro 
          scarsamente, o per niente, retribuito; forse cibo non proprio 
          abbondante e un alloggio di fortuna visto che, spesso, i capi maestri 
          dovevano ospitare più apprendisti; la lontananza da casa e dagli 
          affetti più cari; il trauma del trasferimento in una società cittadina 
          e lagunare, che niente aveva a che fare con l’ambiente bellunese e la 
          rassicurante presenza dei monti dove erano cresciuti.
          Lo 
          dimostrano tante annotazioni poste a lato dei contratti di lavoro, che 
          stanno ad indicare che l’apprendista era scappato: Zuanne Perini, 
          assunto il 27 Febbraio 1713,
          "dice il 
          paron esserli fuggito il sudeto garzon il 16 Febbraio 1715 la prima 
          volta, la seconda il 17 Luglio 1716, la terza il 23 Agosto e non esser 
          più tornato". (30)
          Come Zuanne, 
          molti garzoni scappano più volte dal lavoro, ma poi, a distanza di 
          qualche giorno, ritornano; alcuni, dopo la fuga, continuano il loro 
          praticantato ma la maggior parte si rende definitivamente 
          irreperibile.
          In genere i 
          padroni aspettavano un certo periodo di tempo prima di comunicare la 
          fuga ai Provveditori alla Giustizia Vecchia (vedi il 29/05/1734 il 
          contratto di Tommaso De Carli che se n’era andato già da due mesi 
          quando, l’11 Ottobre 1737, il maestro ne fa annotare la dipartita e 
          quello del 31 Luglio dello stesso anno del praticante fustagner 
          Battista del fu Carlo da Livinallongo scomparso già tre mesi prima 
          della dichiarazione) (31), probabilmente perché era un episodio che si 
          ripeteva frequentemente e confidavano in un repentino ritorno del 
          garzone; forse la formula inserita nell’accordo "falando alcun giorno 
          si tenuto rifar quel paron", era prevista anche per questa 
          eventualità.
          Un episodio 
          deve essere citato a favore dei datori di lavoro: Alessandro Lorden, 
          capo maestro fabbro, riaccoglie per tre volte il garzone fuggito 
          Zanmaria Talamin (alle sue dipendenze dal 10 Novembre 1707) finché, 
          trovatolo che rubava, lo licenzia. (32)
          Ma questo 
          fatto può anche essere la spia delle davvero misere condizioni di vita 
          di questi ragazzi, forse costretti a ritornare al lavoro (una volta 
          fuggiti) dal padre o dal garante, messi di fronte ai bisogni della 
          famiglia lasciata al paesello, e poi, incapaci di resistere 
          ulteriormente, scappavano di nuovo o, come Zanmaria, rubavano per 
          procurarsi ciò che non riuscivano a guadagnare.
          Come si 
          vede le annotazioni contenute in questi registri si prestano a diverse 
          interpretazioni; impossibile affermare con certezza quale sia la 
          verità.
          Meno 
          frequenti, ma pur sempre degne di menzione, sono le note (sempre 
          apposte a lato dell’accordo a cui si riferiscono) che indicano il 
          licenziamento del garzone. Di solito non sono indicate con chiarezza 
          le ragioni di un tale provvedimento, ma appare la formula "lo licenza 
          e ciò stante le cause moventi l’animo suo", in qualche caso con 
          l’aggiunta di "e consegnato a suo padre", forse per esimersi da ogni 
          responsabilità.
          Questo è 
          quello che accade a Zanmaria Nagol da Agordo, preso alle dipendenze 
          del fustagner Gerolamo Venudo il 28 Gennaio 1750 e licenziato 
          il 15 Aprile 1751 (33); forse si tratta di una casualità, ma ho 
          notato, nella stessa pagina, il contratto di un garzone (di cui 
          purtroppo non ho annotato le generalità perché non bellunese), assunto 
          dallo stesso capo maestro, che era fuggito. Probabilmente i due 
          episodi non sono correlati, ma la mia fantasia mi ha suggerito la 
          possibilità che il bellunese abbia reagito in qualche modo alle dure 
          condizioni a cui era sottoposto e sia stato così licenziato, mentre 
          l’altro, forse di carattere più mite, abbia preferito la fuga.
          Dopo questa 
          panoramica generale sulle innumerevoli informazioni che si possono 
          ricavare da un accordo di garzonato, poniamo attenzione alle arti in 
          cui più nutrita era la presenza degli apprendisti bellunesi, nel 
          periodo considerato.
          Ho 
          esaminato circa 2400 contratti di lavoro concernenti l’impiego di 
          bellunesi nella città lagunare: alcuni ho dovuto tralasciarli perché 
          illeggibili a causa del deterioramento del manoscritto o per 
          l’incomprensibilità della grafia, altri non riportavano il luogo di 
          provenienza del garzone e, spesso, ho preferito non trascriverli, 
          nonostante il cognome indicasse una probabile origine bellunese.
          Le 
          professioni più "affollate" di garzoni bellunesi: sono diciotto, ma ve 
          ne sono molte altre in cui è segnalata la presenza dei miei 
          compaesani.
           
          
          
          I mestieri 
          più ambiti
          
          Solo lo 
          studio di altre fonti consentirebbe di inserirne altre tra i mestieri 
          più "ambiti" dai montanari.
          Nei 
          contratti di garzonato presi in considerazione i mestieri sono così 
          suddivisi:
          Bombaseri 
          81
          Botteri 21
          Calegheri e 
          Zavateri 350
          Capeleri 52
          Casseleri 
          103
          Fabbri 46
          Forneri 447
          Fustagneri 
          87
          
          Intagliadori 16
          Linarol 63
          Luganegheri 
          134
          Marangoni 
          117
          Scaleteri 
          191
          Squeraroli 
          160
          Stramazzeri 
          67
          Tentori 139
          Tesseri 31
          Tornitori 
          62
          Come si può 
          facilmente notare i settori in cui erano maggiormente concentrati i 
          garzoni bellunesi, sono alcune arti di vittuaria come i forneri, 
          i luganegheri e gli scaleteri; arti legate alla 
          produzione e alla lavorazione di tessuti ed abbigliamento in genere, 
          come i calegheri, i tentori, i bombaseri, i 
          fustagneri, gli stramazeri, i tesseri, i capeleri; 
          ed infine arti legate alla cantieristica, all’edilizia e alla 
          lavorazione del legno e del ferro come, ad esempio, marangoni,
          squeraroli, casseleri, fabbri ed altro.
           
          
          
          I forneri
          
          L’arte dei
          forneri (fornai) è sicuramente quella che accoglie il maggior 
          numero di garzoni bellunesi, difatti, da sola, raggruppa quasi il 25% 
          del totale dei contratti esaminati.
          Su 445 
          ragazzi accordatisi come garzoni, solo 12 risultano essere fuggiti
          e questo può certamente derivare dal mancato aggiornamento dei 
          contratti, ma anche stare a significare che il trattamento loro 
          riservato dai datori di lavoro era accettabile.
          Salta 
          subito agli occhi il fatto che i cognomi di molti capi maestri, che 
          assumono questi garzoni, sono di indubbia origine bellunese, anche se 
          solo per uno di loro, Giovanni Molin, tale informazione è confermata 
          nel documento; difatti cognomi come Zuliani, Colussi, Costa, Soramaè, 
          Panciera, Dalla Scola, Dall’Acqua, Longiega, Cucco, Scarzanella, per 
          non citarne che alcuni, sono ancora oggi molto diffusi nella provincia 
          di Belluno.
          Molti sono 
          gli accordi tra persone con lo stesso cognome ed è molto probabile che 
          appartenessero allo stesso casato o, in ogni caso, avessero legami di 
          parentela; forse per questo pochi abbandonavano il praticantato prima 
          di averlo terminato: essere alle dipendenze di un consanguineo può 
          comportare (ma non è garantito) un miglior trattamento ma anche 
          maggior obblighi, soprattutto morali.
          Nel periodo 
          considerato emerge che gli aspiranti forneri provenivano soprattutto 
          da Livinallongo (27%) e da Cividal di Belluno (21%), seguiti a breve 
          distanza dagli zoldani (18%); percentuale non molto inferiore per 
          quelli originari di Colle Santa Lucia (11%) e di Selva di Cadore 
          (10%).
          Tali dati 
          ci permettono di individuare nella parte alta dell’attuale provincia 
          di Belluno la zona di maggior afflusso dei garzoni forneri nel 
          Settecento; forse questi ragazzi andavano a lavorare da parenti ormai 
          saldamente insediatisi a Venezia, oppure la popolazione dei territori 
          montani aveva una particolare abilità in tale mestiere, come sostiene 
          Lazzarini, nel suo saggio, quando afferma che:
          "… sin dai 
          tempi antichi, quando la popolazione di Venezia cominciò a crescere 
          considerevolmente, i vivandieri e fruttivendoli chiamarono in aiuto 
          uomini di una zona ben definita, comprendente "Vinallongo, Col Santa 
          Lucia, Selva di Cadore, Solt e Rechiavè", per costruire i forni e fare 
          il pane". (34)
          
          Confrontando i nomi dei garzoni con quelli dei capi maestri di qualche 
          decennio dopo (riportati in appendice), sono riuscita ad individuarne 
          alcuni che ricorrono in entrambi gli elenchi: Zuanne Soppelsa, assunto 
          il 15 Gennaio 1748 potrebbe essere lo stesso che, tra il 1788 e il 
          1797 risulta esercitare come maestro a San Polo; Francesco Longiega, 
          garzone dal 31 Maggio 1748, potrebbe essere il medesimo che tiene 
          bottega a San Geremia ed è catalogato tra i forestieri (difatti 
          il garzone era originario di Livinallongo, allora sotto l’impero 
          asburgico).
          Ma anche 
          per Iseppo Pezzei, Lorenzo Dell’Andrea, Zuanne Colussi si potrebbe 
          affermare la stessa cosa: l’omonimia era, allora, certamente molto più 
          diffusa che ai nostri tempi ma sono troppi i cognomi bellunesi 
          ricorrenti nei due elenchi, per pensare ad un evento casuale.
           
          
          
          I 
          luganegheri
          
          L’arte dei
          luganegheri (salsicciai e pizzicagnoli) a Venezia, nel 
          Settecento, vede una folta concentrazione di emigrati chiavennaschi 
          che esercitano tale mestiere e ne hanno assunto una sorta di monopolio 
          (35); numerosi, però, sono anche i bellunesi, che provengono 
          soprattutto dal Cadore (39% dei contratti bellunesi esaminati) e da 
          Cividal di Belluno (27%).
          Un 
          interessante documento ci fornisce il luogo di nascita e la paternità 
          di un certo numero di capi maestri, classificati come cadorini.
          Oltre a 
          confermare la mia ipotesi che alcuni garzoni, partiti dalla zona di 
          Belluno, fossero riusciti a "far fortuna", o comunque a migliorare la 
          loro condizione economica, a Venezia (come Battista di Antonio Giolai, 
          nato in Cadore da padre cadorin che aveva una bottega sua alla 
          Pietà), sono degne di attenzione le notizie riguardanti altri due capi 
          maestri, Bortolo Ambrosoni e Domenico Franceschi, entrambi nati a 
          Venezia "da padre cadorin", ambedue con bottega propria.
          Questo mi 
          porta a credere che i loro padri fossero emigrati da giovani 
          (probabilmente per fare i garzoni) nella Dominante e che, poi, vi si 
          fossero stabiliti, forse definitivamente, sposandosi con una ragazza 
          del posto oppure fatta venire dal paese natale.
          Anche per i
          luganegheri ho trovato delle corrispondenze tra nomi presenti 
          negli elenchi dei garzoni e in quelli dei capi maestri, come Antonio 
          Murer, Pietro Follador, Bortolo Dal Negro, per fare un esempio.
           
          
          
          I scaleteri
          
          Anche gli
          scaleteri (pasticcieri e ciambellai) costituiscono una delle 
          arti in cui la presenza degli emigranti dolomitici è decisamente 
          consistente e la stragrande maggioranza di questi (il 70%) proviene da 
          una zona ben precisa del bellunese: il Cadore.
          Si deve 
          notare però che del 19% di garzoni non è nota la provenienza, ma i 
          cognomi indicano una sicura origine bellunese; per alcuni potrei anche 
          azzardare cadorina.
          Come per le 
          altre due professioni esaminate sopra, il confronto con la tabella dei 
          capi maestri dell’arte ha dato buoni risultati: oltre a dover 
          segnalare l’inusuale presenza di una donna (che ha due cognomi comuni 
          in Cadore), molti maestri hanno indicata, accanto al nome, la 
          provenienza del Cadore; uno addirittura, Daniele Giacchetti, è morto 
          là (si era, forse, ritirato al paese d’origine una volta raggiunta 
          l’età avanzata?).
           
          
          
          I tempi
          
          Per quanto 
          riguarda le variazioni dei flussi migratori nel tempo, possiamo notare 
          che i forneri giungono più numerosi in laguna nel periodo 1710 
          – 1719 e ancor di più nel 1730 - 1739, pur rimanendo numerosi fino 
          alla fine del 1750.
          I 
          luganegheri mostrano un picco straordinario nel 1730 - 1739, che 
          si abbassa, ma non di molto, nel decennio successivo e, dopo un 
          periodo di bassa affluenza, riprendono, se pur in numero molto 
          ridotto, tra il 1770 e il 1779.
          I dati che 
          ho raccolto per gli scaleteri partono dal 1740 ed attestano che 
          questi sono numerosissimi soprattutto tra il 1760 e il 1769, ma la 
          loro presenza rimane considerevole, pur se in contrazione, fino a 
          tutto il 1779.
           
          
          
          Manifattura 
          tessile e abbigliamento
          
          Il settore 
          della manifattura tessile e dell’abbigliamento vede impiegati numerosi 
          garzoni, addetti a mestieri diversi, che sono emigrati dal territorio 
          bellunese; in particolare spicca l’arte dei calegher e zavateri 
          (calzolai e ciabattini) che, nel periodo da me esaminato (in questo 
          caso 1700 – 1740), conta ben circa 350 apprendisti. Provengono, per il 
          35%, dal Cadore e per il 28% dal territorio di Cividal di Belluno e 
          per il 9% dall’Ampezzo.
          I 
          Giustizieri Vecchi ordinarono, nel 1695, che alcune arti, tra cui 
          quella degli scaleteri e dei calegheri e zavateri,
          dovessero tenere libri distinti dalle altre corporazioni per 
          registrare i propri contratti di garzonato (36); ho consultato questi 
          documenti per il periodo sopra indicato, ma risulta un "buco" negli 
          anni tra il 1723 e il 1735, per cui le considerazioni sull’afflusso 
          potrebbero risultare poco attendibili.
          Per quanto 
          riguarda il periodo successivo, dal 1750 il numero dei contratti in 
          cui le provenienze non sono specificate, diventa molto alto, tanto 
          che, dal 1760 circa, questa preziosa informazione scompare quasi del 
          tutto.
          Qualche 
          dato, per il periodo tra il 1741 e il 1750, possiamo ricavarlo dallo 
          studio di Andrea Vinello, che ha calcolato, in percentuali, i dati di 
          provenienza dei garzoni lavoranti a Venezia, per alcuni quinquenni 
          campione. (37) Notiamo che, tra il 1740 ed il 1745, su un totale di 
          188 contratti esaminati, il 9% proviene da Belluno, il 5,3% dall’Agordino, 
          il 3,7% dall’Ampezzo e il 10,6% da altre zone del Cadore; nel 
          quinquennio 1746-1750 i dati sono: 10% da Belluno, 3,5% dall’Agordino, 
          7,6% dall’Ampezzo e 5,9% da altre zone del Cadore.
          
          Considerevole, dunque, l’affluenza dei bellunesi in laguna anche in 
          questi anni, soprattutto dalla città capoluogo e dal Cadore (come era 
          emerso anche nell’intervallo cronologico da me studiato), anche se, 
          nell’ultimo periodo, vi è una significativa flessione di questi 
          ultimi.
          Da tutte 
          queste informazioni si può certamente affermare che l’attività 
          calzaturiera era una di quelle più praticate dai garzoni provenienti 
          dal Bellunese: lo dimostrano l’alto numero di contratti (ben 350), 
          registrato nel breve periodo tra il 1700 e il 1740 (ancora più 
          significativo se si considera il "buco" di 12 anni), e le numerose 
          botteghe di capi maestri, con cognome chiaramente montanaro, 
          distribuite un po’ in tutti i sestieri, nel 1788.
           
          
          
          I tentori
          
          Altro 
          mestiere piuttosto ambito dai garzoni di montagna era il tentor 
          (tintore), che poteva essere da guado (pianta usata per tingere 
          di giallo) o da seda; i ragazzi assunti sono nati a Belluno e 
          nel territorio circostante per il 45%, mente per il 44% sono originari 
          dello Zoldano. Arrivano in buon numero in laguna dal 1700 al 1719 e, 
          dopo un notevole calo tra il 1720 e il 1729, raggiungono la loro punta 
          massima nel decennio 1740 – 1749.
          Vi erano, 
          inoltre, 52 garzoni capeleri (facevano cappelli); 31 tesseri 
          (tessitori), divisi in da tela e da seda; 87 
          fustagneri (con i quali ho inserito anche i tesseri da fustagno); 
          63 linaroli, 67 stramazzeri (fabbricavano materassi di 
          lana e coperte imbottite) e 81 bombaseri (addetti alla prima 
          lavorazione del cotone, la battitura del greggio, per prepararlo alla 
          filatura).
          I 
          tesseri non sono molti, nonostante questa fosse una manifattura 
          con ancora un notevole numero di addetti a Venezia nel Settecento, e, 
          a parte il 33% che arrivava da Cividal di Belluno e il 13% dal Cadore, 
          provenivano un po’ da tutta la provincia.
          Ho, però, 
          individuato un buon numero di capi maestri, certamente d’origine 
          bellunese, che esercitavano tale professione tra il 1702 e il 1792.
          Forse lo 
          scarso numero degli accordi di garzonato può essere spiegato dal fatto 
          che gran parte della manodopera dei maestri tesseri veniva 
          fornita dai famigliari (in misura maggiore che in altre professioni), 
          che non necessitavano di tale periodo di apprendistato visto che 
          imparavano il lavoro in casa, fin da piccoli nel caso dei figli, 
          mentre le moglie erano spesso scelte perché esperte di quello stesso 
          mestiere: "un matrimonio con una tessitrice esperta era considerato un 
          buon investimento e un’occasione per l’ampliamento della bottega". 
          (38)
          I 
          fustagner provengono per il 43% da Canale d’Agordo e per il 39% da 
          Cividal di Belluno, mentre gli stramazzeri per il 35% dalla 
          città capoluogo e dintorni, il 18% da Canale e il 15% dal Cadore; 
          infine i bombaseri sono ben il 58% di Belluno e dintorni e il 
          27% da Canale d’Agordo. A sostegno di tali dati cito ancora Morena 
          Luchetta che, nel suo studio nominato sopra, afferma che a Canale d’Agordo, 
          nel 1811, c’erano ancora 25 stramazeri e 18 bombaseri.
           
          
          
          Garzoni per 
          cantieristica
          
          Per 
          concludere uno sguardo ai lavori legati all’edilizia, alla 
          cantieristica e alla lavorazione di ferro e legno.
          I garzoni 
          accordatisi con i marangoni (falegnami e carpentieri) sono 
          parecchi, specializzati, in prevalenza, nella costruzione di remi (da 
          remezzi) e di case (da fabriche), ma i dati da me raccolti 
          sono limitati agli anni dal 1700 al 1724 in quanto, nei registri della 
          Giustizia Vecchia da me consultati, non ne ho trovati altri. 
          Nonostante ciò è possibile affermare che questa professione accoglie 
          il 30% di apprendisti oriundi del Cadore, il 29% di Cividal di 
          Belluno, e il 22% dell’Ampezzo; da segnalare che, su 117 garzoni 
          assunti, ben 8 non hanno portato a termine il contratto perché 
          "fuggito e più tornato" e ciò può essere stato determinato anche dalla 
          lunghezza dell’apprendistato che, per questo mestiere, andava dai sei 
          ai sette anni.
          Più di 
          cento, invece, i capi maestri (sempre individuati dal cognome) di 
          origine bellunese, scovati nei registri dell’arte dal 1709 al 1780: 
          appare subito evidente che sono quasi tutti dediti alla costruzione di 
          case, mentre i cognomi più ricorrenti sono i soliti Costantini, 
          Panciera, Barbon, De Luca, Pina, Tomasi, Dal Fabbro, Zuliani.
          Un’arte che 
          mi ha molto colpito è stata quella degli intagliadori, nella 
          quale mi sono stupita di trovare apprendisti bellunesi che, vista la 
          vicinanza ai boschi, ritenevo esperti nella lavorazione del legname. 
          Non ho rinvenuto molti contratti (forse si trovano in altri 
          documenti), ma i sedici trovati mi hanno permesso di ottenere qualche 
          informazione su una professione certamente qualificata per la sua 
          componente artistica, essendo legata all’industria dei mobili e dei 
          quadri.
          A riprova, 
          nessuno dei garzoni citati in questi accordi riceve un compenso di 
          qualche genere, anzi, in alcuni casi, è il padre a dover corrispondere 
          al padrone una somma in denaro: Iseppo Berton riceve da Lorenzo Nardi, 
          genitore di Pietro, 45 ducati "una volta tanto". (39)
          Questi 
          contratti coprono un periodo che va dal 1706 al 1770 e mostrano una 
          concentrazione di presenze tra il 1740 e il 1770.
          Del 32% dei 
          garzoni non è dato di sapere la provenienza, anche se i cognomi non 
          lasciano molti dubbi; il 31% è originario del territorio di Cividal di 
          Belluno e il 19% dall’Ampezzo. Più numerosi i capi maestri 
          probabilmente bellunesi, tra i quali penso di aver ritrovato almeno un 
          garzone: Cristoforo Calegari apprendista nel 1749 può essere lo stesso 
          che esercita come maestro nel 1774; ci sono, poi, due Tommaso 
          Panciera, uno garzone nel 1735 e l’altro capo nel 1742, ma forse non 
          sono la stessa persona. E il padre del Tommaso garzone, Valerio 
          Panciera, è lo stesso, maestro nel 1786, oppure è un altro caso di 
          omonimia? Probabilmente sì, ma allora, forse, erano parenti.
          Come si 
          vede non è per niente semplice riuscire a seguire con sicurezza la 
          carriera di un garzone, in quanto mancano dati certi e i 
          frequentissimi casi di omonimia sicuramente non aiutano a chiarire la 
          situazione.
          Gli 
          squeraroli che giungono a lavorare in laguna arrivano soprattutto 
          da Zoldo (47%), come dimostra il lavoro di Caniato già citato, e 
          mantennero un’affluenza costante e rilevante sicuramente fino al 1779, 
          anche se sappiamo che le famiglie di origine zoldana dei Casal, dei 
          Battistin e dei Tramontin, senza dimenticare il famoso scultore del 
          legno Valentin Panciera (un omonimo del quale si trova sia nei 
          contratti di garzonato che tra i maestri), continueranno ad essere 
          indiscusse protagoniste nella fabbricazione delle migliori barche di 
          Venezia per tutto l’Ottocento. (40)
          Molto 
          numerosi sono anche altri lavoratori del legno, i casseler, 
          anch’essi apprendisti per sei anni, la maggior parte dei quali partiva 
          dal Cadore (41%), seguita da un 19% da Belluno e dintorni; anche per
          tornitori e fabbri la fascia più consistente è di 
          origine cadorina, il 50% per i primi, addirittura il 56% per i 
          lavoratori del ferro, mentre un 16% viene da Cividal di Belluno per 
          entrambe le professioni.
          Infine i 
          botteri, in numero non molto rilevante, ma soprattutto ampezzani e 
          da Belluno di un buon 29% non si conosce il luogo di nascita.
          Dunque, per 
          molti mestieri, possiamo individuare una precisa zona del Bellunese 
          dalla quale provengono la maggior parte dei garzoni, una sorta di area 
          specializzata nel fornire apprendisti di un determinato mestiere. Ed 
          ecco, allora, che gli aspiranti squeraroli sono zoldani, i 
          tornitori, gli scaleteri, i casseleri, i fabbri 
          vengono dal Cadore, mentre stramazzeri e bombaseri sono 
          da Cividal di Belluno, i fustagneri da Canale d’Agordo e da 
          Cividal di Belluno, i botteri dall’Ampezzo, i luganegheri 
          dal Cadore e da Belluno. Per le restanti arti le percentuali non sono 
          così ben definite da poter individuare un preciso luogo di provenienza 
          dei garzoni.
          Analizzare 
          l’emigrazione nel tempo è piuttosto rischioso, visto che i periodi 
          considerati spesso non coincidono per tutte le arti studiate e molti 
          sono parziali; nonostante ciò potrei azzardare alcune osservazioni.
          L’arte dei
          forneri è sicuramente la più attendibile visto il gran numero 
          dei contratti analizzati e il lungo arco temporale che questi 
          ricoprono, dal 1700 al 1779 si possono individuare tre periodi di 
          grande afflusso: 1710 – 1719, 1730 – 1739 e, anche se in misura 
          leggermente inferiore, 1740 – 1749. Anche per casseler e 
          tentor dispongo di un sufficiente numero di dati, che coprono lo 
          stesso periodo, ed anche qui si possono notare degli aumenti dei 
          contratti nel 1710 – 1719, nel 1730 – 1739 e, soprattutto, nel 1740 – 
          1749.
           
          
          
          Le altre 
          arti
          
          Uno sguardo 
          generale alle altre arti prese in considerazione mi porta ad 
          individuare nel decennio 1710 – 1719 e nel periodo dal 1730 al 1750 i 
          momenti in cui i flussi migratori si sono fatti particolarmente 
          intensi; in alcune corporazioni come linaroli, squeraroli 
          ed intagliadori il picco di massima affluenza è stato tra il 
          1750 e il 1759.
          Queste 
          osservazioni potrebbero indicare che, nei periodi individuati sopra, 
          la montagna attraversò delle crisi di produzione, dovute forse a 
          condizioni climatiche sfavorevoli (particolarmente grave risultò 
          l’inondazione del 1748), per cui la già poco florida agricoltura non 
          riusciva più a sfamare tutti.
          Oppure 
          possono essere stati periodi in cui la popolazione era particolarmente 
          numerosa, soprattutto in fasce d’età come l’adolescenza, perciò 
          l’emigrazione aumentava notevolmente; non si può, inoltre, escludere 
          che tali flussi fossero determinati dalle esigenze del mercato 
          veneziano e perciò i picchi in certe professioni, in ben determinati 
          periodi, possono essere dovuti ad una maggior richiesta di manodopera.
          Nel 
          considerare quanto detto sopra, bisogna tener conto del fatto che 
          spesso i documenti riportano dei vuoti cronologici considerevoli e che 
          molti contratti sono contenuti in fonti diverse; che la patria dei 
          ragazzi assunti molte volte non è indicata o è incomprensibile, che 
          probabilmente tantissimi garzoni non erano registrati o i loro dati 
          non sono scritti correttamente; la dicitura Cividal di Belluno, poi, 
          comprende un’area molto vasta e potrebbe addirittura includere 
          fanciulli che provenivano dall’Agordino, da Zoldo, dall’Alpago o dal 
          Longaronese.
          Tenuto 
          conto di tutte queste incertezze, ho cercato di fornire un’idea dei 
          flussi migratori dei garzoni, diretti dalle montagne bellunesi verso 
          Venezia nel Settecento; un movimento di persone che non va certo 
          ignorato e sottovalutato, vista la sua consistenza, per gli effetti 
          che ha sicuramente prodotto nella vita e nell’economia delle nostre 
          Dolomiti.
          
          L.M.
           
          
          
          
          Note
          
          (1)